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Lasciarsi tutto alle spalle: Jérôme Sessini ci parla dell'impatto emotivo della fotografia di guerra

An Orthodox priest blesses protesters along a barricade in Kiev, Ukraine, during protests in 2014, captured by Jérôme Sessini. Unidentified snipers had opened fire on unarmed protesters, with an official sources suggesting 70 people were shot dead.
Un prete ortodosso benedice i manifestanti su una barricata a Kiev, in Ucraina, 20 febbraio 2014. Scatto realizzato con Canon EOS 5D Mark II, esposizione 1/125, f/5.6 e ISO 200. © Jérôme Sessini/Magnum Photos

Sanguinose guerre civili in Iraq e Siria. Violente rivolte in Libia e Ucraina. Scontri armati tra i cartelli della droga in Messico. Questi sono soltanto alcuni degli scenari in cui si è immerso il fotografo di Magnum Jérôme Sessini. Egli non è uno di quei fotografi che arrivano in un luogo, scattano qualche foto e poi scappano via. Nel corso di molti anni, Sessini ha trascorso lunghi periodi all'interno di alcune delle zone di conflitto più violente del mondo, per poter immortalare adeguatamente le realtà più crude della vita in quei luoghi.

Facendo questo, il fotografo mette la sua vita in grave pericolo e c'è da chiedersi quale influenza stia avendo tutta quell'esposizione alla brutalità e alle sofferenze sulla sua mente e la sua anima. È una domanda impossibile da ignorare dal suicidio del fotogiornalista sudafricano Kevin Carter avvenuto nel 1994, che diceva di essere perseguitato dai ricordi vividi degli orrori a cui aveva assistito. Sessini prova a rimanere distaccato e dichiara: "Ovviamente ci deve essere un qualche tipo di impatto quando trascorri 15 anni in zone di guerra esponendo la tua psiche a tutta quella violenza e a quelle sofferenze. Tuttavia, non so che tipo di impatto ha su di me il mio lavoro. Quando torno a casa dopo un viaggio, cerco di buttarmi tutto alle spalle. Non voglio portare la violenza e le guerre a casa mia, nel luogo in cui vivo e alle persone che mi circondano, perciò cerco di allontanarle dai miei pensieri".

Tuttavia, egli ammette che riuscirci non è semplice. "Ti senti schizofrenico perché devi cambiare te stesso e il tuo atteggiamento molto rapidamente e questo, a volte, richiede tempo", afferma il fotografo. "Così, quando sono stato all'estero per molto tempo, so che ho bisogno di una settimana per tornare a pensare e a 'sentire' in modo normale. Con il tempo riesco gestire tutto questo".

Si potrebbe pensare che questo processo diventi più difficile con il passare degli anni poiché il bagaglio emozionale di tutti gli orrori a cui ha assistito diventa più pesante ma, in effetti, Sessini afferma che sta diventando sempre più facile riadattarsi alla vita normale. "Era molto più difficile 10 anni fa", ricorda. "Con l'esperienza e con l'età non ho più bisogno di dimostrare qualcosa; non cerco più l'adrenalina". Ciò implica che cambiare ritmo e atteggiamento tra una zona di guerra e la vita di tutti i giorni diventa meno estremo. "Rende più semplice separare le due realtà, impedendo che tutto si confonda nella tua mente".

Per molto tempo, fotografare le vittime di guerra ha rappresentato una vera e propria passione per Sessini, che lavora per lo più con una fotocamera Canon EOS 5D Mark II. "Fin da quando ero bambino mi sono interessato alle immagini e da adolescente mi sono appassionato alla storia", racconta il fotografo. "Inoltre, ricordo che mi sedevo con i miei genitori e guardavo in TV insieme a loro le notizie sulle guerre di quel periodo". Di conseguenza, la fotografia mi è sembrata l'unico modo per essere un artista da un lato e un giornalista dall'altro".

In Jérôme Sessini’s stark image of the Syrian civil war, the bombed out streets of the Karm al Jabal district of Aleppo lie empty in 2013 following sustained attacks.
Le strade bombardate del distretto Karm al Jabal di Aleppo, in Siria, 11 febbraio 2013. Scatto realizzato con Canon EOS 5D Mark II, esposizione 1/125, f/11 e ISO 100. © Jérôme Sessini/Magnum Photos

In realtà, Sessini non utilizza molto spesso i termini giornalista o fotogiornalista ma preferisce descrivere se stesso come un fotografo. "Non voglio rientrare in una categoria", ci spiega. "Le categorie limitano la libertà di espressione. Alcune persone diranno: "Questo fotografo è un artista perciò non ha il diritto di visitare una zona di guerra". Oppure: "Questo tizio è un fotogiornalista perciò non ha il diritto di realizzare questo tipo di immagini". Per questi motivi, preferisco avere una visione più ampia della fotografia, che non prevede categorie".

All'inizio della sua carriera, Sessini è stato fortemente influenzato dai fotografi americani come Robert Franks, Diane Arbus e Lee Friedlander. "Li consideravo come dei maestri", afferma. "Tuttavia, il fotografo che mi ha fatto davvero comprendere che la fotografia è un linguaggio è Mark Cohen. Sebbene non sia proprio quello che sto facendo ora, quel tipo di fotografia documentaristica ha rappresentato l'origine della mia passione".

Per seguire questa passione, Sessini si è trasferito nel 1998 dalla sua piccola cittadina della Francia orientale a Parigi, dove vive ancora oggi. Non si era trasferito da molto quando l'agenzia fotografica Gamma gli ha offerto la sua grande occasione: di immortalare il tragico conflitto in Kosovo. Da allora, Sessini ha fotografato molti altri conflitti e zone di guerra, tra cui l'Iraq (dal 2003 al 2008), la caduta di Aristide ad Haiti (2004), la conquista di Mogadiscio da parte delle milizie islamiche e la guerra in Libano (2006).

Children and dogs play along the edge of the Rio Bravo along the border between Mexico and the United States. Families from Ciudad Juarez, once dubbed Mexico’s most dangerous city, were captured relaxing here by Jérôme Sessini in 2009.
Famiglie di Ciudad Juárez, una volta considerata la città più pericolosa del Messico, trascorrono i fine settimana estivi rilassandosi sulla riva del Rio Bravo al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, 17 luglio 2009. La fonderia ASARCO di El Paso, che è possibile vedere sullo sfondo, è stata chiusa per contaminazione. Scatto realizzato con Canon EOS 5D, esposizione 1/250, f/11 e ISO 100. © Jérôme Sessini/Magnum Photos

Di recente, ha pubblicato un libro sul traffico di droga e la violenza nelle città vicine al confine tra il Messico e gli Stati Uniti (2012), mentre le sue foto del conflitto ucraino gli hanno fatto conquistare il primo e il secondo premio del concorso World Press Photo (2015). Si è immerso in scene quali quelle che sono seguite al disastro del volo Flight MH17 in Ucraina e i brutali bombardamenti sui civili avvenuti ad Aleppo.

"Ho sempre detto che non sono stato io a scegliere di fotografare i conflitti ma sono loro ad aver scelto me", ci racconta. "Mi sentivo immediatamente a mio agio in quel tipo di situazioni che avrebbero messo in difficoltà altre persone". Ovviamente ero costantemente spaventato e all'erta per cogliere qualunque rischio. Al tempo stesso, quando la situazione degenerava, ho sempre trovato la capacità di restare calmo per analizzare molto rapidamente la situazione e spostarmi nel luogo giusto".

La Siria ha rappresentato una sfida notevole. "Nel 2012 è stata dura stare ad Aleppo, emotivamente e in termini di pericolo", ricorda Sessini. "La situazione era spaventosa e [vedere] così tante persone, i civili, morire negli ospedali è stato terribile. Mi si è impresso nella memoria. Anche l'esperienza in Messico è stata dura. Ho trascorso quattro anni seguendo gli scontri tra i cartelli della droga e ho visto tante persone e famiglie venire distrutte dal fuoco incrociato".

Visti i pericoli delle situazioni di cui ci ha parlato, è un miracolo che Sessini sia ancora vivo per condividere con noi queste storie. Si tratta principalmente di fortuna o di giudizio? "Sono sempre consapevole dei pericoli che corro", risponde. "Se un fotografo si reca in una zona di conflitto senza questa consapevolezza, non è soltanto pericoloso per lui ma anche per i suoi colleghi e le altre persone. Pertanto, è un bene avere paura ed è importante utilizzarla per imporsi alcuni limiti. Sviluppi una specie di sesto senso che ti consente di capire come si evolverà una situazione. Sai istintivamente se restare in un determinato luogo è troppo pericoloso".

Jérôme Sessini captures a man lying in a makeshift tent in West Bakaa, Lebanon. Another victim of the Syrian civil war, he lost his leg during a bombing in Idlib, northwestern Syria.
Un uomo che ha perso la gamba durante un bombardamento alla città di Idlib, nella Siria nord-occidentale, giace a terra in una tenda improvvisata nel distretto di Bekaa Ovest, in Libano, 20 ottobre 2013. Scatto realizzato con Canon EOS 5D Mark II, esposizione 1/125, f/8 e ISO 100. © Jérôme Sessini/Magnum Photos

Durante l'intervista, ci rivela che quella voce interiore che ti spinge alla cautela sta diventando sempre più forte. "È sempre più difficile essere un fotografo nelle zone di guerra perché ora siamo diventati dei veri e propri bersagli. Il pericolo di essere rapiti diventa sempre più concreto. Ammetto in tutta onestà che ci sono molti luoghi in cui non voglio più andare perché mi sentirei inutile. Ad esempio, non c'è alcun motivo valido per assumersi il rischio di visitare la Siria o l'Iraq ora perché non sarei in grado di svolgere alcun lavoro utile. È triste dirlo, ma non desidero essere un eroe; preferisco essere vivo".

Tuttavia, il fotografo intende continuare a lavorare, rispondendo a quella che alcuni potrebbero descrivere come una vocazione. "Sarebbe pretenzioso da parte mia pensare di essere in grado di cambiare il mondo", afferma Sessini. "Ma alcune immagini possono contribuire a dare una comprensione del mondo, di alcune situazioni. Credo fermamente nella potenza delle foto, piuttosto che nei video, poiché sono durature, entrano in profondità nella coscienza delle persone. Toccare la coscienza del pubblico è come fare una passeggiata molto lenta.

"In realtà penso che la fotografia sia una professione molto egoistica ma penso anche che è possibile trasformare questo egoismo in altruismo, per le persone. È un equilibrio difficile da raggiungere ma è quello che sto cercando di fare".

Scritto da Tom May


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