INTERVISTA

"Siate sinceri" implora la fotografa di guerra Zohra Bensemra

A close up of a crying woman as she waits for shelter in a refugee camp in Bangladesh.
Una rifugiata Rohingya che ha attraversato la frontiera del Myanmar piange mentre è in attesa di un riparo nel campo profughi di Kotupalang vicino alla città di Cox's Bazar in Bangladesh, il 21 ottobre 2017. Scatto realizzato con Canon EOS 5D Mark IV e obiettivo EF 35mm f/1.4. © REUTERS/Zohra Bensemra

"In ogni conflitto c'è lo stesso dolore, le stesse tragedie. Si vedono persone che piangono e che soffrono nello stesso modo. Non si tratta di nazionalità, si tratta di esseri umani", afferma Zohra Bensemra, capo fotografa di Thompson Reuters per l'Africa nord-occidentale. Da quando è giunta presso Reuters, nel 1997, Zohra si è occupata di conflitti interni in tutto il mondo, dalla Tunisia all'Iraq, dal Pakistan al Kenya, e ovunque vada è la sua propria esperienza a tenerla informata.

Una rifugiata Rohingya che ha attraversato la frontiera del Myanmar piange mentre è in attesa di un riparo nel campo profughi di Kotupalang vicino alla città di Cox's Bazar in Bangladesh, il 21 ottobre 2017. Scatto realizzato con Canon EOS 5D Mark IV e obiettivo EF 35mm f/1.4. © REUTERS/Zohra Bensemra

Zohra ha iniziato a scattare foto da bambina in Algeria, ispirata da suo fratello maggiore, che era un fotografo amatoriale di talento. All'età di 20 anni, la sua carriera è iniziata con un breve lavoro di tre mesi come assistente fotografa al Museo delle arti e tradizioni popolari di Algeri, lavorando alla libreria di immagini degli oggetti del museo.

Nel 1992, ha cominciato a lavorare presso l'ormai estinto settimanale The Observateur, quindi ha "iniziato a lavorare seriamente come fotogiornalista" presso il giornale cittadino Al Watan, dove il suo entusiasmo per il lavoro è stato ricompensato con storie sempre più importanti. Era un periodo turbolento nella storia del Paese, un'epoca di brutale guerra civile in cui si scontravano la guerriglia del Fronte Islamico di Salvezza e le forze governative; bombe e massacri erano all'ordine del giorno. Zohra aveva 24 anni quando ha fotografato per la prima volta l'esito di un'esplosione suicida locale.

A child looks down the lens as she waits for food supplies at a processing centre for displaced people in Iraq.
Persone appena sfollate attendono di ricevere prodotti alimentari presso un centro di smistamento a Qayyara, a sud di Mosul, in Iraq, il 21 ottobre 2016. Canon EOS 5D Mark III con obiettivo EF 16-35mm f/2.8L II USM. © REUTERS/Zohra Bensemra

"Conosco i sentimenti della gente locale. So cosa devono affrontare, qual è effetto della guerra su di loro. Mi sento come se fossi nel mio Paese, è strano", dichiara Zohra. Ciò le ha lasciato una profonda empatia verso coloro che sono coinvolti in situazioni di violenza, che rende particolarmente difficile la partenza alla fine di un incarico. "A volte mi vergogno", spiega. "Non voglio mostrare che sono contenta di tornare a casa quando loro hanno appena perso dei familiari in un'autobomba o in un attacco aereo. Vorrei che mi sentissero come una di loro. Non posso fare nulla per loro, eccetto scattare foto per mostrare al mondo quel che devono affrontare."

A volte mi vergogno. Non voglio mostrare che sono contenta di tornare a casa quando loro hanno appena perso dei familiari in un'autobomba o in un attacco aereo.

Come molti altri nel suo campo, Zohra ha sviluppato dei modi per affrontare il peso emotivo del suo lavoro, ma questo continua ad avere un suo prezzo. "Non ci si abitua mai al dolore della guerra ma si impara a gestirlo, perché è necessario rimanere, continuare a scattare foto. Se ci si dovesse abituare al dolore, significherebbe non avere sentimenti e, in tal caso, sarebbe meglio smettere. La fotografia non interessa soltanto l'occhio, ma anche il cuore." Ma neanche per un istante ha preso in considerazione di fare un'altra cosa. "Se rimanessi a casa per due settimane senza scattare foto, mi sentirei stressata. Questa attività mi dà equilibrio."

A younger woman comforts an elderly woman, offering her a bottle of water, as they stand in the Iraqi desert.
Donne irachene sfollate, appena fuggite dalla loro casa, si riposano nel deserto. Attendono di essere trasportate mentre l'esercito iracheno combatte con i militanti dello Stato Islamico a ovest di Mosul, in Iraq, il 27 febbraio 2017. Scatto realizzato con Canon EOS 5D Mark IV e obiettivo EF 40mm f/2.8. © REUTERS/Zohra Bensemra

Cerco di pensare a me stessa in veste di professionista della fotografia, né donna, né uomo.

Nel fotogiornalismo, soprattutto nella fotografia di guerra, le donne rimangono una minoranza, ma Zohra ha scoperto che essere una donna può avere i suoi vantaggi. Nei Paesi più conservatori, una donna, specialmente se parla arabo, è la benvenuta negli spazi domestici, in un modo in cui non potrebbe esserlo un collega uomo, e questo la pone in una posizione privilegiata per raccontare le storie delle donne. Comunque, preferisce non soffermarsi sulla questione del genere. "Cerco di pensare a me stessa in veste di professionista della fotografia, né donna, né uomo. Non si tratta di noi. Si tratta di altre persone", sottolinea.

A crowd band together to push over a burnt bus during a protest in Nairobi's Mathare slum.
Una folla prova a capovolgere un bus bruciato durante una protesta contro un'improvvisa repressione della polizia contro la gente di Mathare, nei bassifondi di Nairobi, il 20 febbraio 2008. Scatto realizzato con Canon EOS-1D Mark II N e obiettivo EF 16-35mm f/2.8L. © REUTERS/Zohra Bensemra

Per Zohra, il grande problema che interessa oggi il fotogiornalismo è la fiducia del pubblico, o la mancanza di questa, verso la professione, alimentato da ciò che lei vede come un uso scorretto del potenziale della fotografia digitale. "Dobbiamo lavorare più duramente, perché la gente oggi non ci dà molta fiducia. Recentemente ci sono stati diversi scandali, in cui i fotografi hanno manipolato le loro foto, le loro storie", dichiara.

I social media non sono stati di aiuto, aggiunge, con i notiziari che non vedono l'ora di pubblicare foto appena possono, a volte utilizzano immagini che sono vecchie di anni o che rappresentano un evento completamente diverso. "Mi rattrista non poter cambiare la situazione. Non sono ottimista per quanto riguarda la nostra attività, ma come la maggior parte dei fotografi, faccio del mio meglio per svolgere il mio lavoro nel modo giusto." Con questo in mente, cosa consiglierebbe a chi accede ora al settore? "Non è semplice, ma il mio consiglio è quello di essere sinceri. Se non si è sinceri, non si può fare questo lavoro. Se la situazione del momento mi fa piangere, desidero che la foto faccia piangere anche chi la guarda", afferma.

A woman who fled Myanmar cries as she makes it across the border in Palang Khali, without her father.
Taslima, 20 anni, una profuga Rohingya fuggita dal Myanmar, piange perché suo padre è morto mentre attraversava la frontiera, a Palang Khali, Bangladesh, il 16 ottobre 2017. Scatto realizzato con Canon EOS 5D Mark IV e obiettivo EF 40mm f/2.8 STM. © REUTERS/Zohra Bensemra

"Essere un fotografo riguarda il modo in cui si vedono e si sentono le cose, come si comprende la cultura della zona in cui ci si trova. Parlare con le persone prima di cominciare a scattare foto. Comprenderle. Ascoltare ciò che dicono. Rispettare il soggetto. Non avere fretta. Provare un sentimento per la gente. Facendo tutto questo, si può raccontare la loro storia."

Scritto da Rachel Segal Hamilton


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